Articolo di Mario Piazza
"Qualche anno fa è uscito un breve film animato. Si intitolava Logorama.
Era una pulp-story ambientata in una città. Una Los Angeles fatta solo
di edifici a forma di famosi marchi o logotipi. I nomi di prodotti
famosi o di aziende multinazionali erano essi stessi case, parcheggi,
luoghi di ritrovo e commercio. Diventavano la città. Un territorio
totalmente brandizzato che solo qualche disastro naturale poteva
distruggere e mettere in ginocchio. Ma anche molta dell’architettura che
oggi viene realizzata ha una finalità (celata e non dichiarata)
preminentemente persuasiva. Vuole manifestare una sorta di stereotipo
artificiale che, nel momento in cui viene concretizzato e costruito,
sancisce l’immagine del luogo, definisce il paesaggio. È una
architettura ostentativa, che finge di occuparsi degli spazi dove essa
agirà, consapevole del suo essere icona globalizzata. Funzionerà
ovunque, ai confini del deserto o in mezzo a una favela. La sua non è
una necessità operativa o di relazione, bensì è pura comunicazione. È
quello che ci sembra proporre l’Ordos Art Museum, cava reliquia di una
città da costruire nei lontani distretti cinesi del deserto mongolo. O
quello che è accaduto con la Burj Tower a Dubai, che si è animata solo
all’inaugurazione per poi trasformarsi in oleografica cartolina. Con un
esercizio paradossale potremmo allora immaginarci (e forse spaventarci)
una città alla Logorama, di puri oggetti architettonici iconici, un
parco dei divertimenti dello stereotipo artificiale dove sono scomparse
la sequoia, l’ansa del fiume, la cima innevata o il cupo vulcano. A
Icon-City gli stereotipi naturali sono stati definitivamente cancellati e
sostituiti da conturbanti architetture. Hanno occupato per sempre il
posto delle nostre cartoline e dei ricordi fotografici. Ma quando
andiamo in un ospedale ci manca molto il calore di una architettura
inclusiva, che ci accolga e ci conforti."